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Kings of Leon @Futurshow, Bologna. 3.12.10

Sembrava un miraggio, una favola, un sogno latente che un giorno, chissà, avrebbe potuto avverarsi sebbene si fosse ormai comodamente cristallizzato in questa forma del “sarebbe bello se”, delle fantasticherie rassegnate e poco credute.

E invece no.

Era un mattino di settembre quando iniziò a saltellare da un sito web all’altro, da un profilo facebook all’altro, La Notizia: i Kings of Leon verranno in Italia. Per davvero.

E il giorno arriva, ed è inizio dicembre. E fuori fa un freddo cane. E attraversare Bologna nell’ora di punta è un po’ un suicidio nervoso, ma ci siamo: seguendo la voce ormai insopportabile del TomTom -che pure, dall’alto della sua tecnologia, non ci impedisce di attraversare per ben due volte la detestabile Zona T guadagnando almeno un paio di multe sicure- arriviamo sotto le due torri, prendiamo possesso di due camere d’albergo e poi via, di nuovo in macchina, alla volta del Futurshow.

Tangenziale, luci, frecce, buio, Ikea, code, arriviamo. Il parcheggio, nove euro di simpatia, grazie Bologna. Freddo, freddo e ancora freddo, qualche birra, una piadina -perché è giusto supportare i pregi gastronomici locali- e poi l’ingresso per il parterre. I controlli, di routine, una sorpresa -non di routine: niente bottiglie di plastica. Ma nemmeno senza tappo? No. E allora facciamo fuori anche i nostri cari bibitini vodka-arancia-vodka perché farli andare sprecati no. Non si fa. E con lo stomaco e il fegato un po’ provati, entriamo. Uhm. Non è che ci sia poi tanta gente…e non è così presto. Toh, guarda, il merchandising. Ah, però…beh, quasi quasi venti euro per la fiaschetta di grappa dei KOL…ma sarà almeno piena? Grappa del Tennesse, olé. Avanti, il palco è dal lato opposto, e comunque forse non è così impossibile avvicinarsi alle transenne. Dai si, la posizione è buona: non saranno le primissime file, ma non siamo nemmeno nel cuore della calca, e la vista è buona. Il palco è già allestito con la strumentazione dei KOL, ho come l’impressione che ci siamo persi il gruppo spalla (The Whigs, ndA). Pace. Mamma mia, ma quanti stranieri ci sono? Curioso. Eeeeeh. Via! Luci spente, fumo sul palco, si inizia: parte il set serratissimo della famiglia Followill in trasferta e c’è davvero poco da dire. O troppo. La voce di Caleb è banalmente fenomenale, Nathan alla batteria è uno spettacolo a sé stante -a detta di alcuni è lui a “tenere su lo show”, ma sono commenti da batterista, opinioni di parte-, Matthew e Jared fanno la loro figura e grazie ai maxischermi laterali possiamo cogliere smorfie e dettagli altrimenti difficilmente visibili dalla nostra posizione. L’audio, beh, avrei detto discreto-buono, almeno un sette in condotta se non fosse che, a poche note dall’intro di Mary (canzone numero sei in scaletta), come se una mano invisibile avesse premuto l’interruttore, all’improvviso salta del tutto l’amplificazione. Totalmente. Set improvvisamente acustico. Ma se credete che simili boicottaggi tecnici bastino a smontare la band dei fratelli+1cugino Followill non sapete di certo con chi avete a che fare (a meno che non ci siano piccioni incontinenti nei dintorni, come ben sapranno i fans americani di stanza al concerto di St. Louis lo scorso luglio) . Il brano viene portato a termine, poi tecnici sul palco, sguardi inferociti, si prosegue con la prossima canzone. Ma forse le spie sul palco ancora non hanno fatto il loro dovere visto che, alla fine di The Immortals, Caleb commenta con un “scusateci ma per problemi tecnici non siamo riusciti a sentire nulla di quello che stavamo suonando”. Non ti preoccupare amico Caleb, siete andati alla grande, applausi applausi e ancora applausi.

La scaletta scivola veloce senza ulteriori intoppi, un pezzo in fila all’altro, rare pause, ancora più rari i commenti e le interazioni col pubblico. Qualche frase di rito: “è passato molto tempo dall’ultima data che abbiamo fatto in Italia” (14 novembre 2004, Torino, e qui evito ulteriori commenti), “è bello essere qui”, “che fighe le ragazze italiane”, e poi musica musica e solo musica. Diciotto brani incatenati e tre pezzi per l’encore fra cui quello che sembra essere l’interesse e preoccupazione principale dell’abbraccio umano sotto al palco: “Sex on fire! Sex on fire!”. Reclamato a gran voce, eseguito forse un po’ svogliatamente, sorrisi sardonici per la band quando capisce che, per i più, il testo della canzone è composto esclusivamente da quelle tre caldissime parole.

E si conclude, ghirigori pirotecnici e saluti. Tutti fuori.

Un’ultima manche di freddo e birra, mentre aspettiamo che si smaltisca un po’ la calca fra cazzeggi multipli e un po’ di autolesionismo.

Ma la notte è ancora giovane, e c’è tutta una lunga lista di aneddoti ancora da vivere e raccontare: dai pasticcini radioattivi sepolti e seminati di fronte a una mini cooper, allo scambio culturale col Brasile, dalle lotte armate con alcol e bicchieri di vetro a scene che resteranno scolpite nella memoria per molto, molto tempo.